La ricetta

Sapete cos’è che mi manca di più di Palermo? Il mare? Beh, non solo. Mi mancano le montagne vicinissime che se solo tendi una mano le puoi sfiorare con un dito, i colori e i profumi della natura che con la loro semplicità sono in grado di rinfrancarti il cuore, il sapersi divertire con poco, perché basta un panino ed una birra per sentirsi più felici, la complicità che si crea tra perfetti sconosciuti alla posta oppure al semaforo che li legittima a scambiarsi confidenze come se si fosse amici di lunga vita e mi manca tanto anche il pane! Perché direte voi, a Milano non lo vendono? Certo che sì, ma il tipo di lavorazione e la sua consistenza sono completamente differenti rispetto al suo omonimo siculo. Qualcuno dice che la ragione sia l’acqua, altri il tipo di farina utilizzata, altri ancora la quantità di lievito, ma sta di fatto che la differenza è immediatamente percettibile. Basti prendere in mano un panino del nord per rendersi conto che il suo peso specifico è di gran lunga inferiore rispetto a quello del suo equivalente terrone, che la crosta è meno croccante e morbida e che la mollica (detta anche mòllica con l’accento sulla o come si dice da queste parti… sì lo so, anche loro sono strani), molto più inconsistente. Amo la terra in cui vivo, che mi ha adottato, ed amo le persone che la abitano, ma in fatto di pane la Sicilia non teme confronti.

Sapete cos’è che mi manca di più di Palermo? Il mare? Beh, non solo. Mi mancano le montagne vicinissime che se solo tendi una mano le puoi sfiorare con un dito, i colori e i profumi della natura che con la loro semplicità sono in grado di rinfrancarti il cuore, il sapersi divertire con poco, perché basta un panino ed una birra per sentirsi più felici, la complicità che si crea tra perfetti sconosciuti alla posta oppure al semaforo che li legittima a scambiarsi confidenze come se si fosse amici di lunga vita e mi manca tanto anche il pane! Perché direte voi, a Milano non lo vendono? Certo che sì, ma il tipo di lavorazione e la sua consistenza sono completamente differenti rispetto al suo omonimo siculo. Qualcuno dice che la ragione sia l’acqua, altri il tipo di farina utilizzata, altri ancora la quantità di lievito, ma sta di fatto che la differenza è immediatamente percettibile. Basti prendere in mano un panino del nord per rendersi conto che il suo peso specifico è di gran lunga inferiore rispetto a quello del suo equivalente terrone, che la crosta è meno croccante e morbida e che la mollica (detta anche mòllica con l’accento sulla o come si dice da queste parti… sì lo so, anche loro sono strani), molto più inconsistente. Amo la terra in cui vivo, che mi ha adottato, ed amo le persone che la abitano, ma in fatto di pane la Sicilia non teme confronti.

Nel corso degli anni mi sono interrogato se questa mancanza la sentissi solamente io oppure se fosse una sensazione diffusa anche tra altri siciliani in esilio. Così, qualche anno fa ho lanciato un vero e proprio sondaggio chiedendo a dei siculi espatriati al nord di fornire il proprio contributo. Bene, su un campione di 60 persone di entrambi i sessi, il 94% degli intervistati ha risposto che il non potere mangiare il pane d’appartenenza costituiva un indiscutibile motivo di frustrazione. E’ strano, vero? Ma quale può essere la ragione? Credo che il siculo doc abbia nel proprio DNA oltre ad un amore viscerale per la mamma, ad un legame indissolubile per la propria terra e ad una dipendenza ossessiva per la ricotta, rigorosamente di pecora sia chiaro, anche una sorta di adorazione per il pane. Signorine, pizziati, semprefreschi, scalette, mafalde, parigini, torcigliati, bocconcini… sono solo alcuni dei tanti nomi di pane palermitano. E’ significativo che esista un tale assortimento di forme realizzate con altrettante varietà di farine e che ognuno abbia un proprio nome che li identifichi. Inoltre, non esiste siciliano che non ne conosca a memoria i formati e non ne sappia tracciare l’identikit anche ad occhi chiusi. Il milanese medio, invece, conosce solo la michetta e la ciabatta… il resto? E’ solo pane, risponderebbe! Al nord è frequente andare a comprarlo alle otto del mattino e l’esercizio che lo distribuisce spesso è una rivendita. In Sicilia, invece, è praticamente impossibile che un panificio non abbia annesso anche il forno e che gli acquirenti non siano aggiornati sugli orari delle sfurnate (sfornate) in base alle quali adeguano quello dei pasti. E’ consuetudine vedere dentro ai negozi i clienti fermi e silenziosi come statue, ma non appena la commessa arriva dal retrobottega con la cesta in plastica bianca piena di buon pane fumante iniziano ad agitarsi nell’intento di attirare la sua attenzione e riuscire a conquistare la propria razione prima che venga venduto al vicino di fila. Del resto si sa, il pane a tavola deve essere sempre fresco, croccante e se possibile ancora tiepido se non addirittura caldo. E se rimane? Nessun problema, lo si conserva nei sacchetti di carta in cui è stato acquistato e una volta raffermo, il cosiddetto pani ruru, (pane duro) lo si inzuppa nel latte, lo si frigge nell’olio (si, noi amiamo la leggerezza) oppure lo si grattugia per dare vita a tanti ripieni concedendogli una seconda possibilità per soddisfare i nostri appetiti. E se proprio avanzano dei piccoli pezzetti, ma talmente piccoli da non potere essere conservati, che si fa? Prima di buttarlo via lo si bacia e poi, dopo avere chiuso gli occhi per la serie “costretto fui a fare stu peccato ma io non volevo”, lo si getta nella spazzatura. Eh, sì, perché il pane è sacro e, come diceva mia mamma, Gesù non vuole. Frase tipica per accrescere il senso di colpa nei figli e fargli mangiare il cibo in eccesso pa suvicchiaria (con la forza).

In Sicilia il pane non è solamente l’alimento per eccellenza che accompagna ogni pietanza, o quasi, è anche utilizzato come termine di paragone per catalogare le persone. Dire “è bonu com’u pani” (è buono come il pane) significa essere una persona di cuore, gentile e disponibile, ma dire “si fussi pani unni manciassi” (se fosse pane non ne mangerei) sta ad indicare una persona irritante, poco simpatica e con cui non si farebbe mai bisboccia. Mio padre, da uomo esigente, utilizzava spesso questa seconda espressione 😄

A Palermo inoltre non si rinuncia mai al pane, neppure la domenica in cui, oltre ai panifici aperti è possibile trovare ad ogni angolo di strada macchine con il cofano spalancato ed allestite da rivendite ambulanti… Sì, proprio loro, quelle che vendono il pane chinu ri pruvulazzo (il pane pieno di polvere), come diceva sempre mio padre. Solo in un giorno dell’anno è consentito al palermitano di astenersi dal mangiarlo, ed è il giorno di S. Lucia, ma questo lo racconteremo in una prossima puntata.

Ma veniamo al pane di oggi, un pane davvero buono, anche se preparato in casa, croccante e profumato, che tutti possiamo mangiare anche se lontani dalla Sicilia, come me. Trattai del pane bianco fatto esclusivamente con farina 00 detto anche piane a birra che come tante altre ricette me l’ha data il mio amico panettiere Maurizio. Lui, uomo molto paziente, mi ha seguito e supportato nel realizzare questo mio piccolo sogno. Dal canto mio, l’ho poi adattata con lo scopo di rendere possibile la sua preparazione anche a casa, lontani da formatrici e forni professionali. I panini che prepareremo insieme sono:

La mafalda: è uno dei pani più rappresentativi di tutta la Sicilia la cui nascita sembra doversi ricondurre ad un panificatore catanese che nell’ottocento la dedicò a Mafalda di Savoia. Trattasi di un pane molto saporito, croccante fuori e morbido dentro che nell’immaginario collettivo la si mangia farcita con la mortadella oppure con le fette di melanzane rigorosamente fritte. Nel resto della Sicilia la si prepara con farina di grano duro ma a Palermo la mafalda viene prodotta rigorosamente con farina di grano tenero.

La scaletta: chiamate così per via della sua tipica forma che ricorda quella di una piccola scala che con i suoi tanti gradini è come se volesse invogliasse il goloso consumatore a percorrerla tutta fino a gustarla nella sua semplice bontà;

Il semprefresco: trattasi di un tipo di pane, come dice la parola stessa, che rimane morbido per diversi giorni, spesso utilizzato in occasione di pic nic e spuntini pomeridiani, che rappresenta il pane preferito dai vecchietti che hanno pochi denti. 😁 La nostra cara vicina di casa Annamaria, infatti, lo comprava per gli anziani che accudiva (zii e cugina) i quali avendo la dentiera riuscivano a masticarlo con grande facilità. Siccome Annamaria era “signorina” in quanto non si era mai sposata, tutti l’appellavano con questo titolo nonostante avesse circa sessant’anni. Era abbastanza singolare che il panettiere di famiglia, a seguito di una prenotazione telefonica della vicina, dicesse alle commesse: mettete da parte alla Signorina Annamaria una signorina (in quel caso stava parlando del pane) e tre semprefreschi 😉 A casa nostra il semprefresco lo si consumava con le panelle oppure con l’insalata. No so se si trattasse di un’invenzione di mio padre oppure di una moda di quegli anni, ma in occasione di scampagnate, gite scolastiche (soprattutto di mia sorella Roberta) oppure di pic nic, lui preparava questi buonissimi panini imbottiti che rendevano l’ora del pranzo molto gustosa. Ricordo che quando doveva prepararli si svegliava di buon’ora, li tagliava a metà, li privava della mollica e li condiva generosamente. Metteva dentro ad una insalatiera della lattuga romana tagliata, dei wurstel a rondelle, dei cipollotti bianchi e lunghi a listarelle, aggiungeva dell’olio extravergine di oliva, del sale, del limone e mescolava il tutto. Infine dopo averli conditi e chiusi, li arrotolava in un tovagliolino di carta e poi nella stagnola. Il ricordo di questi panini sono rimasti lungamente chiusi nel cassetto dei ricordi ma adesso, grazie a questo blog, sono riaffiorate memorie, profumi, sensazioni che non pensavo di custodire ancora.

Difficoltà

Difficile

Dosi Per

8 Persone

Preparazione

2 Giorni

Cottura

30 Minuti

Lista ingredienti per la biga

500 gr. farina 00 W260 (12 gr. proteine)

250 ml di acqua minerale naturale

2,5 gr. di lievito di birra fresco

Lista ingredienti per il pane

500 gr. farina 00 W260 (12 gr. proteine)

20 gr. di zucchero

16 gr. di sale

7,5 gr. di lievito di birra fresco

280 ml c.a. di acqua naturale

Sesamo q.b.

Procedimento per la biga

1

La sera prima versiamo dentro ad una ciotola la farina, sbricioliamo il lievito, aggiungiamo l’acqua a filo e con l’aiuto di un cucchiaio di legno iniziamo ad impastare. Una volta che l’impasto avrà assorbito tutta l’acqua lo trasferiamo su un piano di lavoro ed iniziamo ad impastare fino a quando non avrà assunto una consistenza più compatta. L’impasto dovrà risultare un po’ grezzo e non dovrà sviluppare la maglia glutinica. A questo punto diamo al nostro impasto una forma sferica, spolveriamo della farina sul fondo della ciotola adagiandovi la pasta, copriamo con della pellicola trasparente (in inverno anche con un panno) e facciamo lievitare in un luogo asciutto per 12 ore.

Procedimento per il pane

1

Trascorse le 12 ore stacchiamo la biga con l’aiuto di un tarocco, la versiamo dentro al boccale della planetaria, aggiungiamo la farina, il lievito sbriciolato, lo zucchero ed iniziamo ad impastare a velocità bassa con il gancio a foglia. Aggiungiamo l’acqua a filo, ed infine il sale. Adesso cambiamo gancio inserendo quello a uncino e continuiamo ad impastare sempre a velocità bassa in modo che l’impasto prenda forza fino a quando non si non si sarà ben incordato. Ciò si verificherà quando la pasta rimarrà attaccata al gancio della planetaria e le pareti del boccale saranno pulite. L’impasto dovrà risultare licio e morbido quindi diminuire oppure aggiungere acqua rispetto a quanto indicato nella ricetta sulla base della farina utilizzata.

2

Adesso mettiamo l’impasto su un piano di lavoro, facciamo qualche piega di rinforzo, la pirlatura (consiste nel mettere il panetto tra le mani e farlo girare fino a quando non avrà assunto una forma sferica), copriamo con un canovaccio e lasciamo riposare per un’ora. Trascorso questo tempo ricaviamo delle palline del seguente peso: Adesso mettiamo l’impasto su un piano di lavoro, facciamo qualche piega di rinforzo, la pirlatura (consiste nel mettere il panetto tra le mani e farlo girare fino a quando non avrà assunto una forma sferica), copriamo con un canovaccio e lasciamo riposare per un’ora. Trascorso questo tempo ricaviamo delle palline del seguente peso: 65 g. per i bocconcini, 120 g. i panini, 230 g. per il pane più grande. Le copriamo ancora una volta e le lasciamo riposare per altri 15 minuti. Adesso possiamo fare il nostro pane: mafalde, semprefreschi, scalette, bocconcini, signorine, parigini, ecc…

Procedimento delle mafalde

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Stendiamo il panetto da 120 gr. con il mattarello dando una forma allungata. Non aggiungere farina ed utilizziamo un piano in alluminio oppure una cerata in modo che non si appiccichi al piano. Nel caso in cui tuttavia si dovesse attaccare un po’ aiutarsi con un tarocco per staccare la pasta. Attorcigliamo la pasta su se stessa dalla parte più lunga facendo attenzione a non lasciare bolle d’aria ed arrotolandola ben stretta.

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Adesso definiamo la forma rollando tra le mani il nostro panetto come se si stesse utilizzando un mattarello e fino a creare un cordoncino di circa 65 cm. A questo punto dovremo formare le mafalde ponendo la punta verso sinistra e creando una sorta di serpentina in cui l’ultima parte del codoncino dovrà essere posta al centro, perpendicolarmente per tutta la lunghezza della stessa. Il cordoncino centrale dovrà essere leggermente più lungo dell’altezza della mafalda perché una volta posizionato tenderà ad accorciarsi.

3

Spennelliamo dell’acqua sulle forme, aggiungiamo del sesamo e disponiamo su una teglia coperta con della carta forno. Copriamo con un canovaccio e facciamo lievitare per un’ora circa e comunque fino a quando non saranno raddoppiate. In estate facciamo parte della lievitazione in frigorifero (ad esempio 40 minuti in frigorifero e il resto a temperatura ambiente).

Procedimento delle scalette

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Seguiamo il medesimo procedimento delle mafalde, ma in questo caso il cordoncino dovrà essere lungo circa 55 cm. e occorrerà dare la forma creando semplicemente una sorta di serpentina.

Procedimento dei semprefreschi

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Una volta steso l’impasto con il mattarello arrotoliamolo dalla parte più corta. Affusoliamo i bordi, spennelliamo dell’acqua, aggiungiamo i semi di sesamo e continuiamo seguendo le indicazioni delle mafalde.

Procedimento per la cottura del pane

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Mezz’ora prima di infornare le mafalde e le scalette accendiamo il forno in modalità statica, poniamo un tegamino sul fondo con dell’acqua e accendiamo a 250°. Appena raggiunta la temperatura, con uno spruzzino diamo una sola spruzzata di acqua sul pane, spruzziamo due volte le pareti laterali del forno, abbassiamo la temperatura a 230° e inforniamo la nostra leccarda con il pane, nel secondo livello partendo dal basso. Se utilizziamo una teglia utilizziamo la griglia sulla quale adagiarla. Cuociamo per 10′ c.a., togliamo il tegamino, abbassiamo la temperatura a 210′ circa e cuociamo per altri 10′. Trascorso questo tempo abbassiamo a 180′, mettiamo una pallina di carta stagnola in modo che il forno rimanga un po’ aperto e concludiamo con la cottura a spiffero fino a quando il pane non sarà dorato. Una volta cotti mettiamoli a raffreddare in piedi poggiati alle piastrelle. Anche questa tecnica permetterà di ottenere un pane croccante poiché l’umidità scenderà fino a concentrarsi su una piccola parte del pane. Nel caso dei semprefreschi la modalità per bagnare il pane e le pareti del forno sarà sempre la medesima, ma in questo caso il forno lo dovremo fare riscaldare fino a raggiungere la temperatura di 230′. A questo punto abbassiamo a 210°, cuociamo per 10′, togliamo il tegamino e abbassiamo ulteriormente a 200° fino a che non saranno dorati. Vale sempre la regola che i tempi di cottura e i gradi sono indicativi perché dipendono dal tipo di forno.

Utile da sapere!

L’acqua utilizzata per l’impasto dovrà essere a temperatura ambiente in inverno e fredda di frigorifero in estate. E’ inoltre consigliabile che l’acqua per fare sia la biga che il pane sia minerale naturale (non del rubinetto) in quanto più dolce e meno dura.


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